DONNE E JUDO 2: RENA "RUSTY" KANOKOGI
Ci sono passioni che coltiviamo per tutta la vita e per le quali sacrifichiamo ogni cosa, perché viverne senza ci risulterebbe inconcepibile. Per Rena Glickman, newyorkese di origine ebraica nata nel 1935, la passione della vita aveva il nome di un’arte marziale cui era stata introdotta casualmente: il Judo. La sua vocazione giunse dopo un’adolescenza difficile nei bassifondi di Brooklyn, durante la quale aveva aiutato la madre a sbarcare il lunario dedicandosi ai mestieri più vari e disparati.
Quando Rena conobbe il Judo, a metà degli anni Cinquanta, la sua intera esistenza infatti cambiò e la sua energia – fino ad allora indirizzata su di una strada pericolosamente ai margini della legalità – venne incanalata in lunghi e rigorosi allenamenti, che la distolsero dalle cattive compagnie, come la gang di strada “Apaches” di cui faceva parte.
Intervistata molti anni dopo, dichiarò che il Judo l’aveva attratta perché l’aiutava a raggiungere quell’equilibrio psicologico e quell’autocontrollo di cui aveva sempre difettato in gioventù, insegnandole l’autodisciplina.
Centralinista, moglie e madre durante il giorno (si era sposata diventando Rena Stewart), Rena si trasformava di sera, nella palestra di Flatbush Avenue in una zona periferica della Grande mela, in un’instancabile judoka, ansiosa di migliorarsi e di raggiungere apprezzabili risultati a livello agonistico.
C’era un problema, però: alle donne non era formalmente proibito di prendere parte a gare, ma nessuna l’aveva mai fatto sino ad allora, essendo una sorta di tacita convenzione il fatto che il Judo fosse una disciplina più adatta agli uomini.
Rena aveva ben altri progetti
L’occasione parve presentarsi nel 1959, quando ad Utica, presso New York, si svolse il campionato YMCA di Judo.
Rena si tagliò i capelli cortissimi, fasciandosi strettamente i seni affinché non si notassero al di sotto del judogi, l’uniforme destinata ai combattimenti, presentandosi alla competizione come “Rusty”, un nome ispirato al cane randagio che faceva compagnia alla madre, venditrice di hot-dogs per le strade di Brooklyn, un nome che finirà per accompagnarla per tutta la carriera.
Al campionato cui aveva fatto ingresso travestendosi da uomo, Rena aveva ottenuto di prendere parte dopo l’infortunio di un compagno. Nel proprio incontro vinse l’avversario, trascinando la propria squadra alla medaglia d’oro. Era il coronamento di un sogno ma, si sa, talvolta i sogni sfumano e a Rena, presa da parte dagli organizzatori dell’evento, insospettiti, fu formalmente chiesto se fosse una donna.
Non appena ebbe annuito, avvilita, le fu strappata la medaglia d’oro dal collo
Nel 1962, comprendendo che negli Stati Uniti la strada del Judo a livello professionistico le sarebbe stata preclusa in quanto donna, Rena partì alla volta di Tokyo, per studiare al Kodokan, il quartier generale del mondo del Judo.
Le donne avevano insegnato in quello che era il più celebre tempio del Judo giapponese sin dal 1926, ma solo in corsi femminili.
Rena divenne invece la prima donna ad insegnare al Kodokan in un corso maschile in Giappone. Al Kodokan l’infaticabile Rena conobbe anche il suo futuro (secondo) marito, Ryohei Kanokogi, un professionista della disciplina, che la seguì negli Stati Uniti dove convolarono a nozze nel 1964, avendo successivamente due figli, fratelli del primo, Chris Stewart, che volle cambiare a propria volta il suo cognome in Kanokogi.
Una volta rientrata in patria, la carriera di Rena fu costellata di successi: nel 1965 diresse, come prima donna, il campionato giovanile di Judo, nel 1966 fu la volta del New York Women’s Invitational Shiai, nel 1976 divenne allenatrice nazionale della squadra femminile di Judo degli Stati Uniti, nel 1980, infine, organizzò, ricorrendo ad un prestito bancario con ipoteca sulla propria casa, il primo campionato mondiale di Judo femminile al Madison Square Garden di New York. Margaret Castro-Gomez, pluripremiata judoka statunitense, fu una sua allieva. Rena, inoltre, fu la prima donna al mondo a conseguire il settimo dan nel judo, e sempre a lei si deve l’introduzione, alle Olimpiadi di Seoul del 1988, del judo femminile come disciplina olimpica.
L’unica “battaglia” che l’atleta non riuscì a vincere fu quella contro il cancro, che se la portò via nel 2009. Era stata definita “la madre del Judo femminile”, ma aveva sempre rifiutato l’etichetta di “femminista” durante le interviste.
Per spiegare la propria passione dichiarò:
"Tutto ciò che ho fatto, l’ho fatto per amore, che fossi donna oppure uomo non importava, io volevo solo continuare a studiare la mia disciplina"
Questo articolo è stato scritto da Giovanna Potenza per Vanilla Magazine e può essere trovato a questo indirizzo:
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